martedì 18 dicembre 2018

"I Babbo Natale fanno correre la solidarietà" (Giornale di Brescia) - domenica 16 dicembre

La corsa dei Babbi Natale è diventata ormai un appuntamento imperdibile per i bresciani. Ben tremila sono stati i partecipanti alla "Babbo Running" (ottocento in più rispetto allo scorso anno). In Castello hanno messo insieme le forze la Babbo Running organizzata dalla società sportiva Italia Runners in molte città d'Italia e la Corsa dei Babbo Natale del Dopolavoro del Comune di Brescia, una collaborazione di testa e di cuore, perché parte del ricavato andrà a sostenere la Fondazione Scuola Nikolajewka e il suo progetto di ampliamento per offrire ancora più sostegno alle famiglie dei disabili. Il Castello di Brescia è il luogo di elezione di una corsa-camminata che ogni anno attira atleti ma soprattutto gruppi e famiglie: i primi, una volta avuto il via, sono scattati per percorrere il più rapidamente possibile i nove chilometri del percorso che, scendendo dal Falcone d'Italia e attraversando il centro storico, risaliva poi sul Cidneo da via San Faustino. Ma la maggior parte dei partecipanti ha preso parte non a una corsa ma a una festa lunga cinque chilometri.
Il piazzale della locomotiva si è riempito di Babbi fin dal mattino: trovare un parcheggio era quasi impossibile e molti hanno scelto la metropolitana per raggiungere il centro storico e poi avventurarsi per la salita fino all'entrata del Castello.
In un freddo pungente, tipico del Natale ormai alle porte, i provetti Santa Claus si moltiplicavano a vista d'occhio. Dopo la partenza, arrivata qualche minuto dopo le 9 per via della grande ressa per le ultime iscrizioni e il ritiro dei pettorali, il deflusso dal castello è partito a tutto gas con il gruppo di testa pronti a sfidare il cronometro e poi più lentamente con il folto gruppo dei camminatori ad inseguire ad un ritmo adatto alla domenica mattina. Mentre la città si stava stiracchiando e stropicciando gli occhi, è arrivata l'invasione dei cloni di Santa Claus: centinaia e centinaia di persone di rosso e bianco vestite per un giorno di festa. Una volta tornati in Castello, tutti i partecipanti in rumorosa coda verso il ristoro a base di the e dolci natalizi.

(fonte: Giornale di Brescia)

martedì 20 novembre 2018

Monte Pastello e forte Masua (domenica 18 novembre)

Forte Masua
Con i suoi 1128 metri il profilo del monte Pastello si staglia inconfondibile su tutta la pianura per le grandi macchie rosse delle cave di marmo aperte sul fianco orientale. La cima è raggiungibile attraverso uno dei numerosi sentieri che scendono da Breonio lungo il monte Crocetta e il monte Castelletto e si prolungano verso la dorsale del Monte Pastello. Base di partenza dell'escursione il ristorante Paroletto (mt 907), da qui ci si sposta sulla stradina che sale a località Rovinal dove superiamo placide mucche al pascolo sugli ampi prativi intorno a forte Masua, forte che cercheremo di osservare meglio al ritorno nonostante non sia visitabile - è proprietà privata - e l'accesso ci è precluso da una recinzione. L'ampio sentiero Cai 240 si alza sino ad una radura dove sono state allestite le statue della Madonna delle Salette e dei due pastorelli (mt 1033), poi sempre in tranquilla salita, attraverso un bel faggeto, inizia l'evocativa via crucis che va a raggiungere la grande croce di metallo delle Salette del Pastello a 1106 metri, la seconda vetta meno conosciuta del Monte Pastello, con lo spettacolo della Valpolicella e di Verona in lontananza. Uno stretto sentiero fra le rocce porta successivamente alla cresta del Monte Pastello e scorci stupendi si aprono ai nostri occhi, un'incomparabile vista a 360 gradi permette di vedere a nord-est il Carega, poi la Lessinia, la Valpolicella, il lago di Garda e il Baldo. 
Dopo la cima proseguiamo per una ventina di minuti fino ad un piccolo spiazzo roccioso accanto alla grande croce in pietra dove ci fermiamo per il pranzo al sacco lasciando in lontananza la foresta di ripetitori e ponti radio. Riprendiamo il cammino del ritorno, tutto in discesa, su un percorso misto tra strada sterrata e sentiero nel bosco che si rivela subito molto tecnico e con passaggi non sempre ben chiari, più in basso lasciamo a destra la deviazione per Cavalo e proseguendo in falsopiano si arriva ad una grossa cava, ancora attiva, che appare come una immensa cicatrice sul fianco della montagna. Scendendo gradatamente ci riallacciamo all'intersezione del sentiero di andata e andiamo a dare un’occhiata all'esterno di forte Masua. Adagiato su un pianoro a 920 metri d'altezza, la fortezza venne costruita dal Genio Militare del Regio Esercito Italiano tra il 1880 ed il 1885. Faceva parte del sistema difensivo della Lessinia con i forti Monte Tesoro, Santa Viola, San Briccio e il Castelletto, dopo l'annessione del Veneto nel 1866 al Regno d'Italia a protezione di un'eventuale invasione da parte dell'Impero austro-ungarico. 
Monte Pastello
Durante la prima guerra mondiale nessuno dei suddetti forti è stato coinvolto in combattimenti. Il Masua era stato costruito con la pietra locale, il rosso ammonitico, e con pianta poligonale. La struttura è autorevole ed elegante al tempo stesso circondata da un fossato perimetrale esterno ed uno interno più un camminamento tra i due. Le murature esterne sono ricche di feritoie e i terrapieni mimetizzano il forte collocato sulla cima del monte. Era l'unica fortezza della Val d’Adige dotata di sei cannoni da 140 mm in cupola corazzata girevole in acciaio con campo di tiro di 360 gradi e quattro cannoni da 87 mm con le bocche che si aprivano a nord sulla Vallagarina e incrociava il proprio tiro con il forte S. Marco situato sulla sponda opposta della Val d’Adige. Dopo il 1916 forte Masua fu disarmato, utilizzato come deposito e successivamente dismesso. Peccato davvero non poterlo esplorare.

Di ritorno al ristorante Paroletto ci concediamo una "merenda" a base di polenta, spezzatino e brasato mentre nel salone accanto si musica e si danza allegramente.


PARTENZA: ristorante "Paroletto" (mt 907)
SEGNAVIA: Cai 240
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 220
ALTITUDINE: mt 1128
LUNGHEZZA: km 11

venerdì 2 novembre 2018

Roma, semplicemente Roma...(27-29 ottobre)

Sabato 27 ottobre - Roma antica moderna bella affascinante un pò ladra perché ti ruba il cuore signora perché se ne arricchisce con i suoi templi le sue chiese le sue rovine testimonianza di una grande civiltà. Una storia immensa, ogni angolo della città fa respirare l’unicità di questa capitale, romantica e possente insieme e poi la sua cucina dai sapori forti, decisi e gustosi. E di pietra parliamo. Tutta Roma è di pietra! Ad ogni angolo si percepisce la sua grandezza passata. Difficile e caotica: è necessario saper trovare la propria dimensione e i propri spazi per non farsi travolgere. Non conosce compromessi. I tramonti più belli al mondo, i palazzi più imponenti, la Storia che si respira nelle strade, le sorprese dietro gli angoli, i Romani (gioia e dolore della città)…e le macchine, il traffico, i clacson, le urla, le buche…E in questo clima di sospesa attesa che usciamo dalla stazione ferroviaria, dopo un viaggio muito legal a detta della nostra marmotta brasilera, con un vento forte e caldo che spettina i capelli e fa danzare le nuvole nel cielo. Le previsioni meteo appaiono funeste, la pioggia potrebbe rovesciare tutto il suo pesante carico da un momento all'altro ma non importa. Ritornare a Roma magica, eterna, che inebria lo sguardo e rinsana la mente, viverla con i suoi ritmi lontano dalla forsennata corsa ai monumenti, andandola a scoprire nella sua parte più nascosta.
E in principio fu Domitilla, moglie (anche se le fonti storiche sono incerte a riguardo) del console Flavio Clemente nel 95 d.C. e nipote dell'imperatore Vespasiano che per la sua fede cristiana fu mandata al confino a Ponza. Le catacombe di Domitilla, risalenti al III secolo, con una estensione di dodici chilometri sono le più grandi di Roma composte da una serie infinita di corridoi, loculi, arcosoli (nicchie arcuate) e camere sepolcrali familiari molte delle quali affrescate (cubicoli). Abbandonate per secoli le catacombe vennero riscoperte dall'archeologo Antonio Bosio alla fine del Cinquecento. Risaliamo dalle buie profondità alla sovrastante basilica semi-ipogea dedicata ai soldati Nèreo ed Achilleo martiri durante le persecuzioni di Diocleziano, databile tra il 390 e il 395, e da qui riemerse in superficie andiamo a visitare il mausoleo delle Fosse Ardeatine, una delle pagine più atroci della seconda guerra mondiale. L'azione partigiana a via Rasella provoca la morte di 33 soldati tedeschi. La rappresaglia nazista è immediata: per ogni soldato tedesco saranno uccisi dieci italiani. Il massacro di trecentotrentacinque persone avviene nelle cave di tufo sulla via Ardeatina ed oggi il monumento rimanda a perpetua memoria che la follia non prenda mai più il sopravvento sulla ragione.
Dalle strade ai vicoli, dalle piazze alle rotonde, tra palazzi rinfrescati e vetrine tirate a lucido passeggiare per ogni suo angolo è come camminare nella Storia, e assorte in questi pensieri raggiungiamo l'antica trattoria Vecchia Roma dove amatriciana, cacio e pepe e ogni delizia della cucina romanesca sono le vere protagoniste. E in conclusione di serata, tutte all'Archivio 14 dove vanno di scena le drag queen! Domenica 28 ottobre - Apri la finestra e il panorama offre una giornata in odor di pioggia. Ma basta una buona colazione e una comoda giacca a vento e via per le strade di Roma dove si avverte la sensazione che è sempre stato così, la sovrapposizione dei millenni e le tracce secolari catturano in un viaggio temporale unico al mondo. Oltre le mura aureliane di Porta San Giovanni, l'attesa sul monumentale San Francesco opera datata 1927 dello scultore Giuseppe Tonnini e poi lungo viale Carlo Felice dove si raggiunge la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme edificata sui resti di una villa imperiale nel periodo di Settimio Severo e trasformata in basilica cristiana da Elena, madre dell'imperatore Costantino. Ritorniamo verso la maestosa Basilica di San Giovanni in Laterano sotto una fitta pioggia. La zona e la basilica devono il nome alle proprietà della nobile famiglia dei Laterani, confiscate all'inizio del IV secolo dall'imperatore Costantino e donate a papa Silvestro. Sorse così un complesso di edifici che costituivano un vero borgo, il "Campus Lateranensis", esteso dalla basilica alla Scala Santa. L'imponente edificio è la prima delle quattro basiliche papali maggiori. Ripartito in tre navate subì nel corso dei secoli ogni sorta di devastazione dalle orde barbariche agli incendi e terremoti.
Nel 1215 papa Innocenzo III commissionò a Pietro Vassalletto lo splendido chiostro, il gigantesco tabernacolo è del secolo successivo mentre il totale riassetto della Basilica è un capolavoro di Francesco Borromini. Ecco la nostra foto ricordo davanti al gigantesco portone centrale della basilica recuperato da papa Alessandro VII dall'antica Curia Iulia del Foro Romano. Ora una finissima pioggia va a braccetto con un venticello insolitamente tiepido. Alla nostra sinistra la Chiesa di San Lorenzo e la Scala Santa mentre al centro della piazza sorge l'obelisco Lateranense, il più alto di Roma (46 metri) e il più antico. L'obelisco di granito rosso è ricoperto di geroglifici che lo datano al regno di Tutmosi III (1504-1450 a.C.) e trasportato da Tebe a Roma nel 357 da Costanzo, figlio di Costantino. Distrutto da un fulmine in tre pezzi, rimase sepolto per secoli sotto il Circo Massimo e poi riportato al suo antico splendore da papa Sisto V che ne affidò i lavori all'architetto Domenico Fontana nel 1588.
Il cielo si apre finalmente mentre sulla direttrice che unisce il Laterano con il Colosseo, superiamo l'antica Basilica di San Clemente e raggiungiamo il simbolo nel mondo della romanità. Si sa praticamente tutto del Colosseo. L'imperatore Vespasiano iniziò la sua costruzione nel 72 d.C. per allestire spettacoli di caccia e combattimenti di gladiatori, mentre suo figlio Tito inaugurò l'edificio nell'80 d.C  con giochi che durarono tre mesi. Capace di ospitare sino a 45.000 spettatori era posto su tre livelli, nei sotterranei erano collocate le gabbie delle belve che venivano fatte salire attraverso botole con grandi effetti scenografici. Intorno gli edifici ausiliari, i Ludus Magnus di cui si vedono i resti, dove vi erano le caserme dei gladiatori, i depositi di armi, un'infermeria per i feriti e un'arena, copia in scala ridotta del Colosseo, per gli allenamenti. L'area circostante l'anfiteatro pullula di persone, entriamo facendo un po' di fila pur avendo prenotato l'entrata. L'interno è grandioso, colorato di genti e di linguaggi universali, il contrasto con il cielo cinereo ha del surreale, un senso di pacatezza dell’anima si rinvigorisce ad ogni passo. Fuori l'Arco di Costantino è silente testimone di antiche glorie mentre si sale l'antica Via Sacra che conduce al Palatino, all'Arco di Tito e al Foro Romano. Secondo la mitologia romana il Palatino fu il luogo di nascita di Romolo e Remo fondatori della città e tra mito e realtà il colle è un susseguirsi di edifici e giardini.
Il palazzo di Domiziano occupava tutta la parte centrale del Palatino e l'enorme complesso - fine del I secolo - faceva grande effetto anche sui contemporanei come rimane traccia nelle lodi di Marziale e Stazio, divenendo nei secoli successivi la dimora degli Augusti per eccellenza. Ai nostri occhi un vero museo a cielo aperto ma anche un'oasi di pace, eco lontana della grandezza di Roma Imperiale. Scendendo verso gli Horti Palatini Farnesiorum, i bellissimi giardini della famiglia Farnese, le vestigia del passato emergono dal verde della ricca vegetazione che si estende lungo i declivi del colle verso il Foro Romano che fu il centro politico, religioso ed economico della civiltà romana. Le ombre della sera calano su queste splendide rovine mentre ci muoviamo verso altri tesori che Roma custodisce gelosamente: Piazza di Spagna con la scalinata a Trinità dei Monti, la celeberrima Fontana di Trevi, il Tempio di Adriano, il Pantheon, la barocca Piazza Navona, Campo de Fiori con il suo popolare mercato e il monumento a Giordano Bruno che in questa piazza fu condannato al rogo per eresia il 17 febbraio 1600, ma anche negozietti, antiche vinerie, trattorie veraci in un vortice di odori e sensazioni che, a dispetto delle nostre gambe molli, sollecitano visioni immaginifiche quasi stordite da cotanta bellezza.
Lunedì 29 ottobre - Un cielo bigio e minaccioso adocchia una Roma già di corsa. Andiamo a piazza San Pietro dove lunghissime file aspettano pazientemente di poter accedere al simbolo per antonomasia della cristianità ma non noi, che preferiamo soffermarci sulla bellezza estetica dell'imponente cupola di Michelangelo e dell'armonioso colonnato del Bernini che abbraccia la piazza. Da Via della Conciliazione libera dal caos automobilistico ci portiamo verso Castel Sant'Angelo, monumento funerario dell'imperatore Adriano (123 d.C.) e successivamente prigione risorgimentale, maniero che incarna totalmente le vicende storiche della Città Eterna dove passato e presente appaiono inscindibilmente legati. Superiamo ponte Sant'Angelo con le splendide statue di San Pietro e San Paolo e degli angeli - ecco la mano superba del Bernini - poi lungo corso Vittorio Emanuele dove saltiamo su un autobus pieno di vocianti studentesse catalane a cui chiassosamente ci uniamo mentre l'automezzo supera in rapida sequenza la seicentesca Chiesa di Sant'Andrea della Valle, il famoso sito archeologico di Largo di Torre Argentina che oggi ospita una colonia di gatti, la Chiesa del Gesù voluta nella seconda metà del Cinquecento dal gesuita Ignazio di Loyola, Piazza Venezia e il maestoso Vittoriano (o Altare della Patria) poi lungo i Fori Imperiali lasciamo a destra il Colosseo e ripassando dalla Basilica di San Giovanni in Laterano andiamo a raggiungere il nostro secondo appuntamento con l'eccellente romanità della Trattoria Etruria. Dalle vetrate del caratteristico locale la pioggia ricompare con toni più imperiosi e a questo punto la partenza sembra ancor più vicina...anche troppo. Arrivederci Roma!

martedì 23 ottobre 2018

Bella escursione a Forte Vezzena - domenica 21 ottobre

Per la sua fantastica posizione venne chiamato "l'occhio degli altipiani" e dai suoi 1908 metri di altezza, a picco sulla sottostante Valsugana e i laghi di Levico e Caldonazzo, il profilo importante di forte Vezzena spicca nettamente sulla rocciosa sommità del Pizzo di Vezzena nel bellissimo blu di questa domenica di ottobre. Forte Vezzena o Werk Spitz Verle  fu edificato quando il Trentino apparteneva all'impero austro-ungarico tra il 1907 e il 1914. Aveva una importantissima funzione di osservatorio e controllo del territorio grazie alla sua posizione strategica, potendo sorvegliare il massiccio del Pasubio, la zona degli Altopiani e tutto il versante nord della Valsugana. Data la difficoltà di raggiungere la cima il forte non era dotato di armamento pesante, aveva solo postazioni per mitragliatrici e una torretta di osservazione blindata e girevole. Sicuramente un'opera ardita che si affaccia a strapiombo con un salto di 1300 metri sulla vallata
Forte Vezzena
La difficile posizione però comportava diversi problemi di approvvigionamento idrico e per questo venne dotato di cisterne da 37.000 litri, alimentate da pompe azionate elettricamente che facevano pervenire l'acqua dal sottostante forte VerleLa fortificazione, con tre piani in superficie, venne realizzata in calcestruzzo e cemento armato. La pianta è trapezoidale, il forte si trova in una gola artificiale di roccia ed era difeso da fitte linee di reticolati. Durante il primo anno di guerra furono scavati degli alloggiamenti sotterranei per la guarnigione dopo che l'artiglieria italiana aveva reso inutilizzabili il secondo ed il terzo piano. Era considerato inespugnabile e tale si dimostrò. Gli italiani cercarono infatti di conquistarlo più volte tra il 1915 e il 1916 ma tutti i tentativi fallirono. L'attuale stato di totale rovina è dovuta al recupero dei materiali ferrosi negli anni del primo dopoguerra ed oggi della fortezza rimangono solo rovine. 
All'epoca il forte era armato con 5 mitragliatrici Schwarzlose da 8 mm M7/12 poste in due casematte corazzate fisse ed una nell'osservatorio girevole posto sulla sommità dell'opera. Ospitava un corpo di sessanta Standschutzen comandati dal sottotenente Konrad Schwarz. Non era dotato di artiglieria, ma durante l'estate 1915 venne portato nei pressi del forte un cannone da 75 mm da montagna che fu usato anche in funzione di artiglieria antiaerea. Ma torniamo all'escursione. La splendida giornata ci porta nel parcheggio a passo Vezzena (mt 1402) accanto all'omonino hotel. Da qui si seguono le indicazioni per Cima Vezzena lungo il sentiero 201 "Via dei Forti" che sale su strada asfaltata tra brevi tornanti e in un breve tempo si raggiunge il forte Busa Verle o in tedesco Werk Verle ad una altitudine di 1505 metri, forte che faceva parte delle sette fortificazioni dello sbarramento Lavarone-Folgaria al confine italiano. Costruito tra il 1907 e il 1914 è un'opera in casamatta di calcestruzzo armato. 
Progettista e direttore dei lavori fu l’Ingegnere Capitano dello Stato Maggiore del Genio Edler Karl von Lehmayer. Costruito in lunghezza, si allunga in quattro gradoni per adattarsi alla morfologia del terreno. Si sviluppava sempre su due piani a parte l’ultimo gradone che era su di un piano solo, con due casematte metalliche fisse per mitragliatrici. Protetto tutto attorno da triplici ordini di reticolati. Era dotato di una cupola osservatorio che permetteva di illuminare lo spazio adiacente al forte, dipinto a macchie verdi-rossastre e recintato da triplice ordine di reticolati. Subì pesanti bombardamenti durante la Grande Guerra per mano dell'esercito italiano. Dopo la Strafexpedition del maggio 1916 rimase da punto di collegamento con il sistema degli altipiani. Qui combattè anche lo scrittore austriaco Fritz Weber autore del libro "Tappe della disfatta". A fine conflitto anch'esso fu spogliato di tutto il materiale ferroso. Il forte in uno stato di grande degrado non è visitabile all'interno per pericolo di crolli ma ne mantiene intatto il fascino strutturale. 
Forte Verle
Tralasciamo l'asfalto per attraversare i prati di Malga Busa Verle e poi proseguire sulla strada "verso i Larici", chiusa al traffico, lasciando perdere il ripidissimo sentiero Cai 205 che accorcerebbe tempi e distanze, per una camminata indubbiamente più lunga attraverso questo bosco meraviglioso dove spuntano funghi in ogni anfratto (attenzione, è vietata la raccolta). Si raggiunge la "curva del Bosco Varagno" da dove si stacca a sinistra la mulattiera che con diversi tornanti sale alla cima. La croce di vetta è sferzata da raffiche di vento ma, complice questa bellissima giornata di sole, è grandioso lo spettacolo sulle cime che fanno da sfondo ai due laghi, cima Marzola e la Vigolana, per proseguire il Pasubio, le lontane vette del Baldo, dalle Dolomiti del Brenta al gruppo del Lagorai e le tre cime del Bondone. Su Cima Vezzena sono stati fatti dei lavori per la messa in sicurezza del forte e degli strapiombi sulla Valsugana con risultati abbastanza discutibili. Riprendiamo la strada militare in discesa mentre il sole scompare di colpo, la temperatura cala rapidamente e la nebbia alle nostre spalle inghiotte il limitare del bosco, trovandoci catapultate di colpo in un'ottica invernale. Il parcheggio dell'hotel Vezzena appare deserto, meglio riprendere la strada direzione Luserna - ultima isola linguistica cimbra - dove dalla coltre nebbiosa appare come per magia Malga Millegrobbe. Ambiente deliziosamente montano, pochi avventori, buon Lagrein e ricco tagliere di affettati e formaggi. E un cameriere d'eccezione perché con grande sorpresa raggiunge il nostro tavolo il signor Massimo Osele, titolare della malga e partecipante al programma "4 Ristoranti" di Alessandro Borghese.
Foto di rito a conclusione di una eccezionale giornata. 

PARTENZA: passo Vezzena 
(mt. 1402)
SEGNAVIA: Cai 201-205
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 500
ALTITUDINE: mt 1908
LUNGHEZZA: km 12,8

lunedì 15 ottobre 2018

La Diga del Gleno in Val di Scalve (BG) - domenica 14 ottobre

Un caldo sole ottobrino alimenta la nostra voglia di montagna quindi di buon'ora si parte verso la Val di Scalve, una vallata ancora incontaminata dal turismo di massa tra estese foreste che abbracciano le strette forre del torrente Dezzo sino allo stupendo gruppo della Presolana. Arriviamo a Pianezza, frazione di Vilminore di Scalve. Il sentiero Cai 411 parte in prossimità della chiesa di San Lorenzo dal curioso orologio alla romana, ovvero il sistema orario a sei ore secondo il quale il giorno va dall'Ave Maria della sera (mezz'ora dopo il tramonto) a quello successivo e si articola in sei ore ripetute quattro volte. Questo sistema venne creato dalla Chiesa nel XIII secolo e rimase in uso in Italia sino all'arrivo di Napoleone che introdusse il sistema a dodici ore. Ma ritorniamo alla nostra escursione. Ora saliamo su un irto sentiero a scalini, si attraversano dei prati e, superate alcune baite, entriamo in un bel bosco, poche centinaia di metri ed ecco la mulattiera, alla nostra sinistra, che si alza seccamente sino a quota 1500 metri. Riprendiamo fiato, il percorso ora è diventato pianeggiante e contorna i fianchi della montagna, si passa sotto una spettacolare arcata di roccia a strapiombo sulla vallata, superiamo un tornantino e d'improvviso appaiono in lontananza le arcate ferite della diga ma è solamente giungendo in prossimità della diga che ci si accorge delle due ultime arcate. In mezzo uno squarcio enorme. 
Le arcate ormai scomparse hanno lasciato in bella vista il famigerato "tampone a gravità" mentre il Gleno, affluente secondario del torrente Povo forma contro i resti della diga un bel laghetto alpino. Merita di essere raccontata la storia della diga del Gleno. Già durante la seconda metà del '800 l'Italia aveva sete di energia e l'arco alpino, con le sue innumerevoli vallate, era sito ideale per lo sviluppo idroelettrico. Fu così che nel 1907 venne richiesta una concessione per lo sfruttamento del torrente Povo da parte di un certo ingegner Tosana di Brescia. La concessione venne poi ceduta all'ingegner Giuseppe Gmur di Bergamo e da questi alla ditta milanese "Fratelli Viganò". Nel 1917 il Ministero dei Lavori Pubblici autorizzò la realizzazione di un invaso di 3.900.000 metri cubi in località Pian del Gleno. Pochi mesi dopo la ditta Viganò notificò l'inizio dei lavori. Piccolo particolare: il progetto esecutivo non era stato ancora approvato dall'autorità competente, ovvero il Genio Civile, che dà il via libera solo nel 1921 al progetto dello Gmur, nel frattempo morto e sostituito con il giovane ingegnere Giovan Battista Santangelo di Palermo che rielabora il progetto iniziale con i lavori già avviati da qualche anno. Nell'agosto 1921 l'ingegner Lombardi del Genio Civile esegue un sopralluogo al cantiere. E' da immaginare la sua faccia quando constatò che la tipologia costruttiva della diga a gravità (lo sbarramento che si oppone alla spinta del lago grazie al suo peso) era stata cambiata in corso d'opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago).
Rilevò infatti che stavano per essere costruite le basi delle arcate e che quelle nella parte centrale della diga non erano appoggiate sulla roccia ma sul tampone a gravità, insomma come in una sorta di castello di carte. Ne seguì l'immediata diffida al proseguire la costruzione e venne ingiunto alla ditta Viganò di presentare un nuovo progetto. Comunque i lavori andarono avanti alla faccia dei vari sopralluoghi del Lombardi e nell'estate 1923 la diga fu completata. Nell'ottobre dello stesso anno il lago venne riempito a seguito delle violenti precipitazioni. Vi furono problemi negli scaricatori superficiali ma soprattutto si innescarono massicce perdite d'acqua alla base delle arcate sovrastanti il tampone a gravità. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di novembre. Il 1° dicembre 1923 alle ore 6.30 Francesco Morzenti, guardiano della diga avvertì un "moto sussultorio violento" e alle 7.15 avvenne il crollo delle dieci arcate centrali della Diga. Una massa d'acqua di volume compreso tra 5-6 milioni di metri cubi iniziò la sua folle corsa verso la valle.  Bueggio, frazione di Vilminore, fu quasi immediatamente travolta. L'acqua percorse lo stretto alveo montano del torrente Povo sino alla confluenza con il torrente Dezzo. L'omonima località scomparì, così come la centrale elettrica, l'antico ponte, la strada e la fonderia per la produzione di ghisa la quale determinò un terrificante spettacolo di acqua, fiamme e vapore.
All'altezza di Angolo l'ondata, colma di detriti, creò delle ostruzioni temporanee con effetti spaventosiL'orrenda massa d'acqua precipitò sull'odierna Boario Terme poi più a valle andò attenuando la sua forza distruttiva ma causò ancora vittime e gravissimi danni sino a raggiungere il Lago d'Iseo. Qui lo spettacolo non fu meno terribile: una cinquantina di salme galleggiavano nell'acqua torbida. 
Le vittime ufficiali del Disastro del Gleno furono circa 360 anche se il calcolo stimato porta a 500 unità. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l'ingegner Santangelo a tre anni e quattro mesi di reclusione più 7.500 lire di multa. Poi dopo la commozione e la solidarietà del momento la valle fu lasciata alla sua tragedia. Il disastro della diga del Gleno rappresenta un esempio macroscopico degli effetti di un'approssimativa progettazione e mal costruzione di una diga. Tralasciando il fattore geologico dell'area, ben undici arcate furono appoggiate direttamente sul tampone a gravità inizialmente costruito creando una pericolosissima discontinuità strutturaleDurante la fase istruttoria del processo vennero sentiti molti testimoni. Il quadro che ne risultò fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti, i procedimenti di calcolo errati. Non solo: le maestranze che lavorarono sotto la supervisione del Viganò vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo vi impiegavano tanto era di guadagnato. Con queste premesse il disastro fu inevitabile...Questo quasi cento anni fa. Osserviamo l'imponenza della struttura soltanto supponendo la devastante fragilità strutturale. Sotto di noi il piccolo specchio d'acqua brilla al sole, un drone sorvola le sue acque e nonostante la presenza di tanti escursionisti si rimane dolcemente avvolte dal silenzio di questa bellissima vallata che sale direttamente alla vetta del Monte Gleno, uno scrigno di meraviglie naturali.



PARTENZA: Pianezza (mt 1267)
SEGNAVIA: Cai 411
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 300
ALTITUDINE: mt 1534
LUNGHEZZA: km 8

martedì 9 ottobre 2018

I forti Hlawaty e Mollinary della Val d'Adige (sabato 6 ottobre)

Forte Hlawaty
Sotto un cielo plumbeo e mantenendo a sinistra il corso dell'Adige, si oltrepassa la Chiusa di Ceraino dove accanto all'omonimo albergo giacciono aggrovigliati da rovi e spini i resti di forte Chiusa, e attraversata la statale 12 del Brennero all'altezza della chiesa di Ceraino, una pila, una felpa e poco altre cose trovano spazio nei nostri zaini quando ci alziamo sulla carrareccia militare che porta ai due forti austriaci. Usciamo abbastanza presto dal bosco e la sottostante Val d'Adige si offre ad uno spettacolo di forte suggestione: davanti a noi forte Rivoli, sopra uno sperone roccioso del monte Cordespino spunta forte San Marco e in basso spicca tra il verde il monumento di Napoleone. Tra il 1849 ed il 1852 per proteggere la strada per il Brennero e lo sbocco della Val d’Adige gli austriaci crearono la piazza di sbarramento di Rivoli-Ceraino con quattro forti: la Chiusa Veneta ed il Hlawaty a Ceraino, il Mollinary a Monte di Sant’Ambrogio ed il Wohlgemuth a Rivoli. 
Tre forti vennero collocati in destra Adige: il Mollinary, situato a 410 metri sulle pendici sud-occidentali del Monte Pastello, era raggiunto da una ardita strada militare che partendo da Ceraino si innalzava con una serie di 16 tornanti, toccando il forte Hlawaty a quota 236 metri, e proseguiva per l’abitato di Monte mentre il forte della Chiusa Veneta venne costruito in basso a 115 metri a sbarramento della strada del Brennero in riva all'Adige. Il forte di Rivoli, posto in sinistra Adige, fu invece edificato sul Monte Castello a 227 metri d’altezza. Le quattro fortificazioni erano molto vicine tra loro: circa 860 metri in linea d’aria tra il forte di Rivoli e quello di Ceraino, circa 940 metri tra il forte di Ceraino e quello di Monte e circa 500 metri tra quello di Monte e la Chiusa Veneta. Questa vicinanza permetteva l’incrocio dei tiri di artiglieria tra forte e forte con il risultato di una migliore difesa dello sbocco della vallata. Il forte Hlawaty costruito sempre tra il 1850 ed il 1851 su di un piccolo ripiano del Monte Pastello era a dominio dell’ansa dell’Adige e dei traghetti, e possiede una pianta irregolare per adattarla alle asperità rocciose del luogo. 
Fu intitolato al luogotenente feldmaresciallo Johann von Hlawaty come riconoscimento per la sua attività di architetto militare. Il forte è dotato di una recinzione esterna che racchiude a nord le cannoniere in casamatta protette da uno strato di terra battuta spesso oltre due metri, mentre a sud si trova il ridotto a forma di parallelepipedo. All’interno vi sono grandi cisterne per l’acqua piovana raccolta con un sistema ingegnoso di canalizzazioni. Pregevoli e ben studiati sono alcuni particolari architettonici, in conci di pietra di rosso ammonitico, che ne fanno un'opera dalle suggestioni artistiche mentre le varie stanze sono collegate da corridoi e scale di interessante manifattura. Merita una citazione anche la strada militare d'accesso all'opera tuttora in ottime condizioni. Questa strada è stata intagliata nella roccia viva e solidi muri di sostegno sono presenti nei tornanti e nelle numerose piazzole. L'ingresso era garantito da un ponte levatoio. Dopo il 1866 e il passaggio all'Italia il forte ha perso la sua funzionalità difensiva per essere adibito a deposito di munizioni e ora versa in uno stato di totale desolazione lasciato alla mercè della vegetazione. 
Forte Mollinary
Munite di torcia ci siamo avventurate all’interno del forte prestando molta attenzione a dove si camminava. Questo forte è stato anche utilizzato come luogo di incontro per i seguaci di alcune sette sataniche. Usciamo da forte Hlawaty riprendendo la salita sulla strada militare e in poco meno di un'ora si raggiunge forte Mollinary in gran parte crollato. Si può visitare anche l’interno con la massima accortezza alla struttura pericolante ed ai fori nei pavimenti. Forte Mollinary venne costruito tra il 1849 ed il 1852 e poteva contenere ventiquattro bocche da fuoco. Venne edificato su di un ripiano ad ovest del paese di Monte di Sant’Ambrogio e intitolato al generale austriaco Anton von Mollinary. L'edificazione del forte è stata caratterizzata da un'esecuzione particolarmente accurata, in pietra di rosso ammonitico locale, che ha messo in evidenza particolari di pregevole impronta artistica.
"Interno" del forte
La sua pianta era irregolare: mentre il lato ad est (contro monte) era protetto da un fossato intagliato nella viva roccia con un ponte levatoio che dava accesso al forte attraverso un bel portale bugnato, il lato ad ovest (verso valle) presentava il ridotto con le cannoniere in casamatta su due piani. Inoltre al centro vi era un ampio piazzale superiore che poteva accogliere alcuni pezzi di artiglieria allo scoperto ma protetti da un parapetto in pietra.
 Diversi locali erano poi destinati alla guarnigione che arrivava ad un centinaio di uomini. Dopo il 1866, con l'annessione del Veneto al Regno d'Italia, il forte passò nelle mani del Regio Esercito che lo considerò strategicamente valido tanto da ammodernarlo nel 1884 invertendo il tiro d'artiglieria da nord a sud. Dismesso a seguito di una esplosione che lo ha fortemente mutilato ora versa nel più completo abbandono.


PARTENZA: Ceraino (mt 115)
SEGNAVIA: sentiero 240
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 300
ALTITUDINE: mt 410
LUNGHEZZA: km 9

martedì 25 settembre 2018

Forte Pozzacchio (TN) - domenica 23 settembre

Nel 1906 il generale Conrad von Hotzendorf, capo dello Stato Maggiore austriaco, diede inizio alla costruzione di moderni forti corazzati a ridosso dei confini imperiali articolati in tre sbarramenti: Adige-Vallarsa, Altipiani e Valsugana. Forte Pozzacchio (in lingua tedesca Werk Valmorbia) posto a quota 882 metri, costituiva un elemento importante della linea difensiva austro-ungarica che iniziava da Riva del Garda verso Rovereto, proseguiva con i forti Matassone e Pozzacchio che sbarravano l'accesso dalla Vallarsa per poi salire sul gruppo del Pasubio e verso gli altipiani di Folgaria e Lavarone. La costruzione del forte quasi interamente in caverna, una sorta di costruzione in negativo dove il materiale principale è la stessa roccia in cui è scavata, fu iniziata nel 1912 con la realizzazione della strada militare e successivamente le caserme, l'acquedotto e una teleferica per il trasporto di materiali. Allo scoppio del conflitto erano completi solo il fossato di gola, la galleria centrale a ferro di cavallo e la struttura in calcestruzzo atta ad ospitare l'armamento principale che consisteva in due obici da 100 mm protetti da cupole girevoli in acciaio, due cannoni da 75 mm, numerose mitragliatrici e riflettori posizionati in caverna e protetti da scudi metallici. La carenza di manodopera e appunto l'entrata in guerra dell'Italia impedirono la conclusione dei lavori tanto che su ordine del comando di Innsbruck gli austriaci abbandonarono il forte per attestarsi in maniera difensiva su posizioni più arretrate nei pressi di Rovereto. Il forte fu così preso dagli italiani il 3 giugno 1915. Un anno dopo, il 22 maggio 1916, nell'ambito della cosiddetta Strafexpedition ("Spedizione punitiva" così denominata dalla propaganda italiana ma per gli austro-ungarici conosciuta come la Battaglia degli Altipiani), il forte ritornò in mano austriaca e vi rimase sino al termine del conflitto.
Saliamo lungo la carrareccia militare per una ventina di minuti, dalla parte opposta si intravedono i resti degli acquartieramenti. Oltrepassata una croce si arriva al fossato, prima difesa dagli attacchi della fanteria, largo otto metri con un ponte in mezzo, ponte che nel progetto della fortificazione doveva essere provvisorio, da utilizzare per il passaggio delle cupole corazzate fino alla zona delle batterie, per poi essere abbattuto. Seguendo la nostra guida entriamo nel ventre della montagna, con abbigliamento adeguato visto che lì sotto le temperature scendono rapidamente. Le caverne destinate ad alloggio erano sostenute da volte in calcestruzzo dello spessore di 50 centimetri in modo da assorbire le vibrazioni dovute ad esplosioni ed evitare il distacco di frammenti di roccia. All'interno delle caverne era prevista la realizzazione di baracche in mattoni con copertura in travi di ferro, assi e lamiera, evitando in questo modo l'umidità della montagna ma che non furono mai completate, e un complesso sistema di canali e vasche che permetteva la raccolta dell'acqua piovana. Seguiamo con attenzione la guida lungo i tre piani in cui è articolato il forte tra corridoi, depositi, alloggiamenti, scale e qualche postazione di artiglieria esposta alla splendida vallata circostante, terminando nella parte superiore dove erano presenti le postazioni in cupola. 
Per accedere alla sommità del forte era stato scavato un pozzo di venti metri nella roccia oggi invece attraverso una solida scala metallica raggiungiamo la sommità della fortificazione. "Evitando sia la pura invenzione sia la ricostruzione storicistica o arbitraria, gli architetti Francesco Collotti e Giacomo Pirazzoli, curatori del recupero della fortificazione, hanno disposto all’interno del Forte una serie di strutture metalliche quali scale, piattaforme, passerelle, corrimano, balaustre e panchine. Nella parte centrale del Forte, piattaforme e parapetti illuminati indirettamente lungo il loro perimetro ricordano, senza necessariamente ricostruirlo com’era, lo spazio delle baracche di legno dei dormitori delle truppe all’interno delle grotte, mentre nelle grandi sale sono le tracce a terra – i frammenti di cordolo in cemento che erano base delle strutture in legno – ad essere riusate nella loro funzione. Proseguendo, un’intricata rete di tunnel conduce alle nicchie dell’artiglieria leggera, dove piccoli affacci dalle forme differenti spuntano dal fianco della montagna. In uno di questi spazi è ospitata una singolare macchina ottica che racconta una delle innumerevoli storie di questo luogo: attraverso una piccola scala a pioli si accede infatti a un foro nella roccia, attraverso il quale era possibile comunicare, senza essere visti, con una casa “amica” in fondo alla valle. Elemento di grande importanza per il progetto è infatti il paesaggio, in questo caso fortificato e artificiale, perché oltre a ospitare i segni materiali e non delle sue trasformazioni, esso è elemento fondamentale di protezione e riparo, chiaramente percepibile a Forte Pozzacchio, il cui paesaggio-palinsesto è costituito da strati sovrapposti che rappresentano elementi spesso traumatici della sua storia. Nella parte superiore del grande pozzo, ad esempio, una passerella metallica recupera la forma della struttura sulla quale sarebbero state montate le cupole di tiro, sulla sommità della cresta della montagna. 
È il punto di contatto tra terra e cielo: una esplosione. A partire dalle tracce esistenti, l’intervento lascia dunque supporre ciò che sarebbe potuto essere il luogo. L’uso di un solo materiale, il ferro, conferisce una maggiore forza all'intervento le cui strutture – disposte in modo da determinare una sequenza di punti, superfici e piani più o meno densi e trasparenti, i cui vuoti e pieni si alternano ritmicamente – sono dipinte interamente con il colore rosso minio, che se da un lato ne esalta la materia, dall’altro dichiara la propria appartenenza alla dimensione minerale del luogo (arch. Federico Calabrese). 
Già fortemente danneggiato dai bombardamenti del maggio 1916, nel dopoguerra il forte fu spogliato delle parti metalliche e abbandonato al proprio destino mentre i suoi dintorni furono utilizzati a pascolo. Bisogna aspettare il 2005 quando il comune di Trambileno acquista il manufatto e inizia un importante lavoro di recupero restituendo Forte Pozzacchio alla sua originaria grandiosità.

martedì 18 settembre 2018

Il Forte Asburgico di Fortezza (BZ) - domenica 16 settembre

Forte Basso
Pronta per attendere il nemico. Dalle sue mura poderose spuntavano cannoni e mortai, dalle sue innumerevoli feritoie poteva tenere sotto tiro l'intero territorio circostante. Progetto apparentemente perfetto, il forte di Francesco I all'epoca della sua inaugurazione era considerato un capolavoro dell'architettura bellica asburgica e doveva rappresentare uno sbarramento invalicabile per qualunque esercito. Ma il nemico non giunse mai, i suoi cannoni non spararono mai un colpo, le uniche vittime morirono nella costruzione del forte stesso e al momento della sua ultimazione nel 1838 aveva già perduto il suo ruolo strategico: gli enormi costi e le spaventose fatiche erano state inutili. Pochi anni più tardi l'immensa fortificazione, una delle più grandi delle Alpi, fungeva ormai solo da deposito. Una cattedrale nel deserto. Dopo l'umiliante armistizio del 1797 ad opera di Napoleone Bonaparte, l'Austria si convinse che contro futuri attacchi sarebbe stata indispensabile una linea fortificata di difesa. Nel 1801 il diciannovenne arciduca Giovanni d'Austria individuò il luogo ideale per erigere un grande sbarramento che bloccasse l'accesso alla Val d'Isarco: si trattava dello sperone roccioso sopra la profonda gola del fiume Isarco.
Forte Medio
Ma le sue idee non trovarono seguito e bisogna aspettare il 1830 quando in Europa scoppiano sanguinosi moti rivoluzionari e da Vienna il potente ma allarmatissimo principe Metternich in tutta fretta fa costruire il famoso "Quadrilatero" delle fortificazioni di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago mentre gli ingegneri austriaci incastonano una fortificazione di cinque piani in una parete rocciosa a Nauders, a poca distanza dal passo Resia, e contemporaneamente l'arciduca Giovanni ottiene l'assenso al suo piano per fortificare la Val d'Isarco. I progetti della Fortezza furono opera di Franz von Scholl, autore anche del forte di Nauders. Ogni dettaglio ha il solo scopo di rendere imprendibile il forte: le mura esterne sono costituite da lisci quadroni di granito che possono sopportare cannonate di grosso calibro, le postazioni di artiglieria hanno volte coniche da cui il fumo si disperde più rapidamente, vari strati di terra coprono i tetti per attutire gli impatti. La fortificazione sfrutta al meglio l'orografia del terreno, divisa in tre forti completamente autonomi, i cui bastioni disposti su diverse altezze danno di primo acchito un'impressione disordinata con l'intenzione precisa di confondere il possibile aggressore.
Il Forte Alto domina l'intero complesso come un'acropoli, raggiungibile dall'interno solo attraverso una scala sotterranea facilmente difendibile. Dal punto di vista progettuale meravigliano le belle scale a chiocciola all'interno per la precisione della loro esecuzione. Pilastri, archi e volte esibiscono curve perfette come si trattasse di architetture da mettere in mostra e non di una fortificazione e questo spiega anche gli enormi costi di costruzione. La cappella, realizzata successivamente, è in stile neogotico mentre la mensa ufficiali ed altri locali presentano tracce di decorazioni. Il complesso è tuttavia un luogo magico. La grande monarchia austro-ungarica voleva dare un segno della propria forza prima di crollare sotto il peso delle proprie fragilità ma è anche la storia del traffico moderno tanto che ben quattro varchi attraversano la Fortezza, oggi libera circolazione ove un tempo venivano erette barriere. E infine l'avventurosa vicenda del tesoro della Banca d'Italia che venne nascosto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e che ha alimentato a lungo fantasie e speculazioni. L'interno del forte appare come un luogo sospeso oltre la Storia. Ampie porzioni della Fortezza sono rimaste praticamente immutate: le casematte in durissimo granito, i possenti archi in mattoni rossi, una spettacolare scala sotterranea di 451 gradini che sale sino a Forte Alto e l'atmosfera quasi inquietante che serpeggia nel gigantesco labirinto di postazioni d'artiglieria, polveriere e gallerie. "Minacciosa come un leone ma di pittoresca bellezza" commentò la stampa entusiasta in occasione dell'inaugurazione nel 1838 e in effetti con le sue spesse mura la struttura ricorda le fortezze medievali ma costò un'inutile enormità.
Già nel 1867 il primo treno sferragliò attraverso il Brennero e non avendo spazio per i binari con rapida decisione e in tempi brevissimi un muro di protezione della Fortezza fu abbattuto e la linea ferroviaria venne fatta transitare tra il Forte Medio e quello Alto. Nel 1872 anche la linea ferroviaria della Pusteria trapassò il Forte Basso, intorno al 1882 la Fortezza fu declassata a deposito ed infine nel novembre 1918, ormai alla fine del primo conflitto mondiale, cadde senza combattere nelle mani militari italiane.
Hotel Sachsenklemme
Per sopperire ai crescenti bisogni energetici nel 1940 venne costruita una diga che andava a sbarrare il corso dell'Isarco formando così un lago artificiale che oltre a cancellare il paese di Prà di Sotto e la profonda gola dietro la Fortezza, trasformò completamente il paesaggio. Dagli anni '70 anche l'autostrada transita tra il Forte Medio e quello Alto. Oggi gli enormi spazi della fortezza sono periodicamente occupati da mostre d'arte contemporanea. Una rassegna espositiva a tema "Sempre sulle corde", allestito nelle casematte del Forte Medio, ripercorre l'epopea delle grandi innovazioni tecnologiche dei primi '900. Con approcci geniali vennero realizzate ferrovie d'alta quota e ardite centrali elettriche connettendo in questo modo le montagne al fondo valle. Sicuramente la mostra più interessante. Dopo la visita alla Fortezza d'obbligo una fermata all'Hotel Sachsenklemme in località Le Cave dove giganteggia una simpatica scultura di Andreas Hofer, figura storica di rilievo di tutto l'Alto Adige, oltre che per la sua ottima birra artigianale.

(testo: Josef Rohrer  foto: Linda Mian)