martedì 25 ottobre 2016

Due marmotte, da castello...a castello!

Quando il grigiore sembra imperare su uomini e cose, si coglie al volo l'austera meraviglia e l'innegabile fascino che solo un maniero sa offrire ad occhi curiosi. E allora tracciano una linea che colleghi castelli strutturalmente diversi ma di imperiosa bellezza. Eccoci a domenica 16 ottobre. Immerso nella campagna bresciana, braccia offerte alla terra ma sempre ricca di tracce storiche, si erge isolato il castello di Padernello, antico borgo nei pressi di Borgo San Giacomo, opera dei Martinengo, casata fedele alla Repubblica di Venezia, ma è già nel Quattrocento che risalgono le prime testimonianze di una fortificazione tra vitigni e boschi. La struttura, circondata da un fossato a cui si accede attraverso un ponte levatoio, è a pianta quadrata con quattro torri angolari di difesa e l'attraversamento del grande cortile interno rende ottimamente l'idea della possanza del castello. Il passaggio nelle 130 stanze della fortezza è affidato alla voce narrante di un rappresentante degli "Amici del castello" che curano la riqualificazione di un bene storico che per anni ha versato nel degrado e nell'abbandono totale, ricevendo così nuova linfa vitale non tanto nella sua musealizzazione ma ponendolo al centro di importanti iniziative culturali. L'entrata nella splendida sala da ballo, a cui si accede dallo scalone settecentesco opera del celebre architetto Giovan Battista Marchetti, si apprezza l'ottimo recupero architettonico giusta cornice per le tele del grande Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto, di irrompente matrice caravaggesca. E poi la leggenda della Dama Bianca, la figlia del conte Gaspare Martinengo, Biancamaria, che attirata dalla magia luminosa delle lucciole precipitò nel fossato del castello nel 1480. Ogni dieci anni, la notte del 20 luglio, il suo fantasma ricompare vestito di bianco con in mano un libro dorato aperto contenente il suo segreto... (www.ilcastellodipadernello.it)
Dalla pianura bresciana, domenica 23 ottobre, ci postiamo verso altri orizzonti, più precisamente a Battaglia Terme (Padova). Il castello del Catajo è spettacolare, lascia ammutoliti i suoi ospiti. Dal portale d'ingresso trasformato in arco di trionfo da Tommaso Obizzi, si accede al Cortile dei Giganti, utilizzato per rappresentazioni teatrali e tornei cavallereschi, poi si affrontano le scalinate, costruite in modo che vi si potesse salire a cavallo e si va a sfociare sulla grande terrazza da cui si ammirano le dolci sommità dei Colli Euganei. E qui la Storia diventa importante. Pio Enea I Obizzi, a cui viene attribuito l'invenzione dell'obice, non poteva accontentarsi di un palazzo qualsiasi e celebrò la propria gloria militare nella mole possente del castello del Catajo. Superba, splendida, circondata da meravigliosi giardini ed eretta in soli tre anni (1570-1573) scavando nella roccia viva del monte Siesa, la fortezza è articolata lungo ben 350 stanze e doveva essere per la casata degli Obizzi, nati come capitani di ventura, una splendida macchina propagandistica della loro capacità dell'arte militare, la cui autocelebrazione si ha nel grandioso ciclo di affreschi del piano nobile realizzato da Giovanni Battista Zelotti, collaboratore di Paolo Veronese, un incredibile trionfo di scene guerresche, allegorie e riferimenti mitologici.
La potenza degli Obizzi crebbe nel corso dei secoli anche attraverso un fitto intreccio di matrimoni "politici", addirittura con lo stesso papato con il matrimonio tra Caterina Fieschi, nipote di papa Innocenzo IV, e Luigi degli Obizzi. Poi nel 1803 la casata si estinse e il castello dopo varie vicissitudini passò all'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo il cui assassinio a Sarajevo portò allo scoppio della prima guerra mondiale. E come in ogni castello che si rispetti anche al Catajo si aggira un fantasma: quello di Lucrezia degli Obizzi, assassinata nel 1654 da uno spasimante respinto. Nel castello si trova una pietra macchiata del suo sangue. Lo spirito della sfortunata Lucrezia vaga ancora oggi nel castello: è sua la figura vestita di azzurro che talvolta si affaccia alle finestre più alte del Catajo...(www.castellodelcatajo.it)

martedì 18 ottobre 2016

Malga Biancari, la bellezza selvaggia della Val Sorda (domenica 16 ottobre)

Uno splendido anello di sentieri che si intersecano tra i profili dolci della Lessinia e gli austeri versanti della Val Sorda, una gola profonda e stretta che ha mantenuto inalterata la sua selvaggia bellezza. Base di partenza è Malga Biancari, in locatità Girotto, posta sulla sommità del crinale a 590 metri, facilmente raggiungibile da Marano di Valpolicella (VR). Da qui partono quattro sentieri contraddistinti da diversi colori che ne determinano il grado di difficoltà, dal percorso giallo soprattutto una rilassante passeggiate boschive, a quello rosso, il numero 4, a cui è stato recentemente aggiunto il tratto detto "sentiero del Tibetano" non ancora mappato dalla Pro Loco, che conduce allo spettacolare ponte sospeso. La domenica è splendida e pennellata d'azzurro ma le forti piogge dei giorni precedenti sconsigliano il sentiero del ponte quindi optiamo per il tracciato blu, il numero 3, che per buona parte del percorso segue parallelamente quello diretto al ponte e realizzato con il recupero di vecchi sentieri. Dopo una breve salita, ci si inoltra nel bosco e il tracciato regolare lascia il posto ad uno stretto sentiero che picchia con decisione verso valle, fra passaggi di rocce impegnativi, che richiedono uno sforzo importante al nostro equilibrio dato che è particolarmente fangoso, "sporco" di rami, fogliame e radici, ma che sa anche regalarci gli odori dei funghi, nota caratterizzante di una vallata abbastanza insidiosa a causa dell'abbondante umidità ma dall'indiscutibile fascino.
Dopo una bella marcia verso il basso, tra le fronde si incominciano ad intravedere alcuni ruderi e una casetta gialla (un bar con annesso parcheggio) in località Molino del Cao (315 metri) che raggiungiamo con il gruppo ormai snocciolato. L'aria è piacevolmente leggera  e la sosta panino quanto mai apprezzata. Riprendiamo il cammino con alcuni muscoli meno tonici rispetto alla partenza e dopo aver superato un pianoro che segue brevemente il Rio Baiaghe, rientriamo nel bosco, dove la sfera solare non riesce più a filtrare, la salita si alza seccamente e grandi felci osservano il nostro passaggio. Il sentiero continua ad essere impervio e soprattutto scivoloso, sino a raggiungere una bellissima forra dove fermarci un attimo per tirare il fiato e ammirarne il paesaggio circostante. Volgendo lo sguardo in alto la segnaletica indica a destra i "Covoli" di Marano, ovvero due grotte carsiche denominate "Coalo del Diaolo" e "Buso Streto", mentre a sinistra si sale in direzione di Malga Biancari. Optiamo per il ritorno alla malga. Alcuni passaggi tra le rocce sono abbastanza impegnativi e richiedono attenzione, poi la scalata si placa e lo stretto sentiero lascia il passo ad un falsopiano e da questo ad una forestale che impegniamo con le ultime energie rimasteci sino alla base di partenza. Ovviamente le "grandi fatiche" richiedono una buona birra in allegra compagnia! E sulla via del ritorno è d'obbligo una visita alla Pieve di San Floriano, a San Pietro in Cariano, una antica chiesa romanica considerata tra le più belle della provincia di Verona.


PARTENZA: Malga Biancari (mt 590)
SEGNAVIA: sentiero n. 3
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 320
LUNGHEZZA: km 6

domenica 16 ottobre 2016

Grandi Donne: WANDA RUTKIEWICZ, la signora degli Ottomila

"Quando sopra di noi c'è solo il cielo tutto è più difficile. Non ci sono mezze verità. Tutto è bianco o nero, freddo o caldo. In entrambi i casi si vive o si muore". Lei era così, della montagna non poteva fare a meno, personaggio chiave della storia dell'alpinismo femminile ma soprattutto donna coraggiosa e caparbia nel battersi per un confronto paritario fra uomo e donna.
Wanda (nata Blaszkiewicz) nasce il 4 febbraio 1943 a Płungianach (ora Lituania). Dopo la guerra, la famiglia si trasferisce a Breslavia dove si laurea in ingegneria elettronica. Forte fisicamente si dedica con buoni risultati prima all'atletica, poi diventa giocatrice di pallavolo e viene anche selezionata per le Olimpiadi di Tokyo ma ben presto scopre la montagna. "E' come un'esplosione interiore. Le montagne erano per me luoghi di pace e di libertà e in montagna mi sentivo felice". Inizia ad arrampicare sulle rocce di casa, gli Alti Tatra, poi insieme al famoso alpinista polacco Bogdan Jankowski sui Sudeti, catena montuosa al confine con la Germania. Tra il '64 e il '65 si reca nella Zillertal, la maggiore delle vallate dell'Inn nel Tirolo austriaco con il futuro marito, il dottor Helmut Scharfetter, vincendo la parete nord-ovest dell'Olperer. Poi è la volta delle Dolomiti mentre nel '67 sale il massiccio del Monte Bianco insieme ad un'altra scalatrice polacca, Halina Kruger-Syrokomska, e con lei l'anno successivo sconfigge la famosa parete nord del Trollryggen, in Norvegia, la più alta parete verticale d'EuropaWanda comincia presto a pensare alle alte montagne. Il primo incontro ha luogo nel 1970 sul Pamir, parte della spedizione polacca sotto la direzione di Andrzej Zawada con cui raggiunge il Lenin Peak (7134 metri). Nella primavera di quello stesso anno sposa il matematico Wojtech Rutkiewicz, il figlio dell'allora Vice Ministro della Salute John Rutkiewicz ma il matrimonio sarà di breve durata, la passione di Wanda per la montagna mal si adattava all'immagine convenzionale di una moglie. Con il Mountaineering Club di Varsavia il 23 agosto 1972 raggiunge la vetta più alta in Afghanistan, il Noshaq (mt 7492) mentre una settimana prima, il 14 e 15 agosto, nella stessa regione era salita sulle cime senza nome W 82 (ca. 5950 mt) e W 81 (ca. 5980 mt).
Ai successi alpinistici di quell'anno si contrappone il dolore straziante per la perdita del padre brutalmente ucciso durante una rapina, e la montagna diventa la sua via di fuga. L'anno successivo sale con Danuta Wach e Stefania Egierszdorff, in seconda ripetizione assoluta dopo i fratelli Messner, il pilastro nord dell'Eiger. Il 1975 è l'anno di uno delle sue grandi conquiste: guida il primo team femminile sul Gasherbrum III (7952 m), prologo per le future ascensioni sulle cime himalayane, e in quella stessa spedizione Halina Kruger e Anna Okopinska raggiungono anche il Gasherbrum II senza l'uso dell'ossigeno. Nel 1978 sale in invernale la parete nord del Cervino con Anna Czerwinska, Krysztyna Palmowska e la giovane Irena Kesa che ebbe una crisi di ipotermia. Wanda cercò di ottenere aiuto via radio ma senza successo. Poi alle otto di sera, nonostante le pessime condizioni atmosferiche, arrivò un elicottero che portò le alpiniste a valle. Solo la Palmowska mise piede sulla vetta. Poi i16 ottobre 1978, nello stesso anno in cui Reinhold Messner e Peter Habeler conquistano la vetta senza ossigeno, Wanda è la prima scalatrice europea (e la terza in assoluto) a raggiungere gli 8848 metri dell'Everest! "Le mie ginocchia tremavano ma ora non potevo rinunciare. Improvvisamente non riuscivo a respirare e ho strappato la maschera di ossigeno dal viso... Alle ore 14 mi trovavo sul punto più alto della terra, ero così felice, mi sono guardata in giro, volevo vedere la curvatura del globo...".  E' un successo che la porta agli onori della cronaca ma soprattutto è una sfida a quell'ambiente alpinistico, aspro e maschilista da cui non si sente accettata come avrebbe voluto e per cui si batte così tanto per rompere il monopolio degli uomini nelle scalate alle alte vette. "Ho conosciuto molti uomini interessanti, ma non ho "creato" la mia vita. Non è facile resistere con me ogni giorno. Qualsiasi tentativo di limitare la mia indipendenza diventa come un'aggressione a cui reagisco con forza"  ha confidato a Barbara Rusowicz ( "Tutto ciò che riguarda Wanda Rutkiewicz" 1992).
I suoi due matrimoni con Rutkiewicz e successivamente con il dottor Helmut Scharfetter furono brevi. Successivamente aveva conosciuto Kurt Lynch, compagno di molte spedizioni, e sembrava il partner giusto per Wanda ma il 24 luglio 1990 precipitò per 400 metri sotto il Broad Peak. "Per la prima volta nella mia vita ho odiato la montagna"Molti furono gli infortuni che caratterizzarono le vicende alpinistiche di Wanda come quello del 17 marzo 1981 sul Monte Elbrus nel Caucaso: colpita dalla caduta di un altro alpinista sul ghiacciaio sotto Pastuchow Rocks aveva subito la frattura esposta del femore e si era recata in Austria per farsi curare. Qui ritrova il dottor Schafetter, spesso in cordata con lei anni prima, che poi finirà per sposare. Dopo un ulteriore intervento chirurgico, a metà gennaio '82 giunge in Italia dove viene ricevuta insieme a Messner dal presidente Sandro Pertini, ma ritornata in Austria per controlli si rompe nuovamente la gamba stavolta sui gradini della clinica. Altri si sarebbero arresi a questa serie di incidenti ma non Wanda. Aveva già dovuto rinunciare alla spedizione del K2 nel luglio 1981 organizzata dall'alpinista francese Yannick Seigneur ma mai a quella dell'estate 1982. Nonostante i numerosi contrattempi e il suo improvviso matrimonio, la spedizione tutta al femminile riesce a partire solo con un breve ritardo e l'immagine di Wanda che attraversa il ghiacciaio del Baltoro con le stampelle fa il giro del mondo. La spedizione fu però un insuccesso e funestata anche dalla morte della sua vecchia compagna di salite Halina Kruger-Syrokomska. Nel 1985 sconfigge la parete sud dell'Aconcagua e il Nanga Parbat e il 23 giugno 1986, al terzo tentativo, diventa la prima donna a toccare la cima del K2, appena prima dei coniugi francesi Liliane e Maurice Barrard e di Michel Parmantier, anche se poi vaga nella tormenta per più di 48 ore.
"Mi trovavo in cima intorno alle 10.15. Avevo preparato un gagliardetto bianco e rosso, della carta e qualcosa con cui scrivere. Ho scritto il mio nome, da dove vengo e la data. Ero la prima donna in vetta al K2". La montagna in quell'anno famigerato conterà tante vittime illustri tra cui la scomparsa anche dei Barrard. Negli anni successivi la Rutkiewicz aggiunge alla sua lista altri Ottomila, Shisha Pangma (1987) con l'amica Ewa Pankiewicz poi nel luglio 1989 sale con una spedizione femminile inglese sul Gasherbrum II . Dopo quest'ultimo successo progetta la cosiddetta "Carovana dei sogni" ovvero la conquista dei restanti Ottomila in un tempo spaventosamente breve (12-16 mesi), idea ufficializzata nell'ottobre 1990 ma destinata al fallimento perchè non teneva conto dei molteplici aspetti che una spedizione comporta quali l'acclamatimento, il tempo atmosferico e la stessa resistenza fisica che richiede un periodo di almeno sei settimane per ambientarsi al successivo ingresso in un Ottomila. Comunque nel 1991 vengono conquistati il Cho Oyu e l'Annapurna, il suo ottavo e ultimo ottomila, denso di veleni in seno al team. A metà strada una caduta di sassi aveva ferito Wanda e Krzysztof Wielicki, capo della spedizione, ne aveva ordinato la discesa. Ma Wanda rifiuta, sale da sola anche se molto lentamente a causa del dolore e raggiunge la vetta. Ma era tardi per ritornare al campo e dovette passare la notte sotto la cima, raggiungendo la base solo il giorno successivo. Si scatenarono le polemiche e fu nominata una commissione d'inchiesta sul raggiungimento o meno della vetta. Le foto presentate dimostrarono la veridicità dell'alpinista polacca, il caso fu archiviato ma per Wanda fu fonte di grande amarezza. Questa situazione aumentò la sua determinazione a vincere il successivo Ottomila, il Kangchenjunga, ma in vetta Wanda non ci arrivò mai. Il primo tentativo a metà di aprile non era riuscito a causa di una tempesta di neve. Erano pronti per il secondo attacco al vertice dal nord del Kangchenjunga il mattino presto (erano le 4.30) dal Campo IV che si trovava ad una altitudine di 7950 metri. Nel campo non c'erano più viveri quindi non si poteva aspettare. Il tempo era buono ma la neve era scivolosa e Wanda, non in perfetta forma, andava più lentamente del giovane alpinista messicano Carlos Carsolio che la precedeva. Rapidamente perde contatto con lui. Intanto alle 17 Carlos tocca la vetta e sulla via del ritorno trova Wanda a 8300 metri decisa a bivaccare, pur non avendo con sè nè gas nè cibo, lui la esorta a rinunciare ma Wanda anche se faceva molto freddo e c'era un forte vento non voleva scendere a Campo IV, avrebbe perso l'ultima opportunità di giungere in vetta quindi voleva tentare al mattino. Il giorno successivo il tempo ha iniziato a deteriorarsi. 
Carlos attende Wanda mezza giornata al quarto campo, poi altri due giorni nel secondo. Lascia per lei tenda, sacco a pelo, gas, cibo e radio. Quando arriva alla base, il tempo era peggiorato e il Kangchenjunga scomparso tra nuvole di neve. Wanda non ha mai fatto ritorno. Non si può escludere che la grande alpinista fosse riuscita, prima donna in assoluto, a vincere il Kangchenjunga ma questo non lo sapremo mai. Non hanno mai trovato il corpo di Wanda anche se nella primavera 1995 la spedizione guidata da Simone Moro trova ad un'altitudine di 7600 metri sul ghiacciaio Yalung il cadavere di un alpinista con una tuta rosa. Gli italiani hanno fatto fotografie dettagliate e sepolto il corpo nel ghiaccio. La stampa ipotizzò che si trattasse di Wanda Rutkiewicz ma l'alpinista polacca indossava una tuta dai colori giallo e acciaio. Inoltre, se vi fosse stata una caduta dalla cresta, il suo corpo avrebbe dovuto essere sul lato nord e non a sud, poi il ritrovamento di alcune compresse nella tasca fanno pensare che si trattasse piuttosto dell'alpinista bulgaro, Jordanki Dymitrowej. Il record degli Ottomila scalati da una donna fu detronizzato solo il 14 maggio 2006, quando Gerlinde Kaltenbrunner proprio con questa cima superò il suo record femminile. Nel 1999 Gertrude Reinisch, sua amica e compagna di spedizione, ha scritto una celebre biografia della grande alpinista "La signora degli Ottomila" (Vivalda Editori, 1999), il ritratto di una donna durissima come la roccia ma anche colma di sogni, speranze e fragilità nascoste.

lunedì 3 ottobre 2016

Due marmotte a Castel Tirol (domenica 2 ottobre)

Tra chiaroscuri decisamente autunnali la prima domenica di ottobre stempera i toni di questa incantevole landa altoatesina. Sì perchè oggi siamo a Tirolo, un caratteristico borgo a una manciata di chilometri da Merano, usi e costumi del vicino Tirol austiaco, nel cuore verde del parco naturale del Gruppo di Tessa. Situato ad una altitudine di 596 metri, Tirolo (Dorf Tirol in tedesco per distinguerlo dalla regione) si snoda fra brevi viuzze e caratteristiche abitazioni e tutte sembrano convogliarsi verso la panoramica che si getta sulla val Passiria. Poi alzi lo sguardo e sopra un colle maestoso emerge imponente Castel Tirolo. La visione è spettacolare e il cielo quasi plumbeo avvolge di arcana magia il fantastico maniero. Edificato a partire dall'anno 1138 dai conti di Tirolo, il castello ben presto diventa il più importante di tutta la regione a monito della potenza della casata che lo abitava. La salita, prima dolce e rilassante, s'impenna decisamente negli ultimi duecento metri proprio quando il cielo apre i rubinetti. Al volo riusciamo a varcare l'entrata. A nord del castello si erge il possente mastio difensivo affiancato da ciò che rimane dell'edificio residenziale, frutto di un ottimo lavoro di restauro. 
Seguendo il percorso fra tracce secolari (pezzi di stoffe, antichi vasellami, copie miniate, armature) raggiungiamo un trono teatrale, posto accanto ad uno stretto incavo adibito a "guardaroba medievale" e divertite proviamo a trasformarci in re, regine, paggi o cavalieri entrando a pieno titolo nella sua storia. E la storia di Castel Tirol ci riporta al marzo 1347 durante la guerra mossa da Carlo di Lussemburgo, re di Boema, guerra che mise in seria difficoltà la resistenza del bastione difeso con incredibile valore dall'arciduchessa Margherita di Tirolo-Gorizia, reggente del casato ed ex cognata di Carlo avendone sposato il fratello Giovanni Enrico di Lussemburgo poi ripudiato (cosa inusuale per l'epoca). Le vicende storiche porteranno poi Margherita a lasciare il trono a Rodolfo IV d'Asburgo e dal 1363 la storia del Tirolo si legherà per più di cinquecento anni con quella della casata asburgica. Nel frattempo è scoppiato un bel temporale e mentre Giove Pluvio si diverte con fulmini, saette e cascate d'acqua, noi attraversiamo il bel camminamento di ronda che volge lo sguardo verso Tirolo e la sua valle, per rientrare poi nel bastione e raggiungere la cappella superiore dominata da un grande Cristo in croce con a lato la Madonna e San Giovanni ascrivibile al 1330 circa.
Una serie di scaloni conduce nelle diverse ali del castello sino alla grande Sala dei Cavalieri attraverso importanti portali, caratterizzati da figure zooformi, veri capolavori di arte romanica. Nel frattempo la pioggia ha lasciato il passo ad un tiepido sole e sull'orizzonte uno splendido arcobaleno cinge nell'immaginifico abbraccio i vigneti della vallata. L'intero nucleo castellano è un susseguirsi di memorie storiche, i muri trasudano lontane vicende, nella corte interna brevi chiacchiericci e il leggero stormire delle fronde. Fuori dalle possenti mura svettano le cime dolomitiche. La funivia che parte dal centro del paese raggiunge in pochi minuti i 1400 metri della stazione a monte di Hochmuth. Da qui dipartono una serie di sentieri che raggiungono Cima Muta (mt 2294), la Val Venosta e i bellissimi laghi di Sopranes, nell'omonima valle. Ma questa è un'altra storia...

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