Il percorso museale è purtroppo terminato. Pezzi unici selezionati con un preciso criterio e che formano idealmente un’enciclopedia tangibile con linguaggio universale. Collezioni ricercate, restaurate e conservate con lungimiranza da Luciano Nicolis che consente al pubblico di scoprire l’ingegno dell’uomo e di declinarle in ogni possibile interpretazione con infinite chiavi di lettura
lunedì 21 ottobre 2024
Museo Nicolis - Un viaggio nel tempo - domenica 20 ottobre
Suggestioni di epoche differenti, dall’eleganza del dopoguerra, l’edonismo degli anni del boom economico fino al modernismo geometrico degli anni 70 all'interno di una luminosa struttura in vetro e acciaio nella zona industriale di Villafranca di Verona. L'entrata del Museo Nicolis è dominata da una maestosa scala a chiocciola e dalla scultura in bronzo, a dimensioni reali, di una Cottereau "Populaire" del 1903, una vetturetta francese, ideata per il ceto medioborghese del primo Novecento. Poi si apre luminosa l'area espositiva dove troneggia una splendida Lancia Aurelia B20, auto amata anche dal grande attore americano Gary Cooper, terza assoluta nella Mille Miglia del '52. Più a destra troviamo la Bugatti Type 49 del 1931 utilizzata nel film Grand Prix del 1966, la francese Amilcar (1928), posta al suo lato una Bianchi decappottabile del 1909, auto di lusso a trasmissione cardanica, e la bella Lancia "Lambda" (1928). Accanto fa bella mostra la Maserati "A6 1500" (1947) disegnata da Pininfarina, dietro quasi a ventaglio le due fiammanti Ferrari - la celeberrima Testarossa e la "348 TB" - anni Novanta che raccontano l'evoluzione tecnica delle sportive, e in contraltare le tre Fiat la "500 Spider" (1949), la 1100 Sport Barchetta (1948) e la Zanussi 1100 Sport del 1952 meravigliosi esempi delle “speciali da corsa”. Superata un’area con cimeli militari delle due guerre mondiali ci appare d'incanto la seducente Harley-Davidson FLSTC Heritage Softail Classic “H-Paradise” (1994) il cui magnifico color ciliegia è il risultato della sovrapposizione di trentanove strati di vernice realizzati interamente a mano, e accanto quasi a farle il vezzo, l'agile torinese Fongri, bellissima bicilindrica del 1921, prodotto scaturito da una miscela di passione e genialità tipica di quei tempi ma oggi così malinconicamente lontana. Per visitare la vera collezione di auto dobbiamo però salire al primo piano, dove si va ad ammirare l’evoluzione della tecnica e della meccanica. Gli albori sono rappresentati dalla Motrice Pia, il primo motore a scoppio funzionante a benzina, realizzato nel 1884 dal veronese Enrico Bernardi, in competizione con il tedesco Karl Benz, a cui è dedicata una apposita sessione, corredata dai disegni originali dell’ingegnere. Tra le tante meraviglie a quattro ruote, ecco la tedesca Benz “Jagdwagen 8/20 PS” (1914) ordinata da un maharaja indiano, la velocissima Ansaldo “4/CS ” (1924) vittoriosa nella corsa in salita “Trento-Bondone” del 1924 guidata da Ettore Mayr, la Mercedes-Benz “500 K” (1934) probabilmente utilizzata da alcuni esponenti di governo del Terzo Reich e la Rolls-Royce “20 hp” (1927) che si fregiava di essere la fornitrice ufficiale di Sua maestà il Re, della Regina e del Principe di Galles. La Fiat rende omaggio al regime fascista chiamando Balilla il modello 508, presente in mostra, ma la vera protagonista del piano è la Lancia Astura Mille Miglia, un esemplare unico al mondo costruito appositamente per il grande pilota Gigi Villoresi nel 1938. La vettura si presenta come un bolide rosso fiammante che colpisce per le sue forme accattivanti e incredibilmente moderne. Procedendo lungo il tappeto blu, si trovano esposte le “stars del cinema” come l’enorme Isotta Fraschini 8 AS del 1929 nel celebre film Il Viale del Tramonto, la DMC DeLorean (1981) di Ritorno al futuro, la Ford Thunderbird (1966) di Thelma & Luise e la Lancia Aurelia B24 Spider de Il Sorpasso (1962) di Dino Risi con Gassman e Trintignant. All’interno del Museo Nicolis sono presenti anche macchine fotografiche, cineprese, strumenti musicali, jukebox, macchine da scrivere come la famosa Lettera 22 di Olivetti, volanti e modellini automobilistici di ogni scala e marchio mentre sul tetto giganteggiano alcuni aerei della Lockheed e la livrea argentea del piccolo Fiat G46 degli anni '50. Saliamo all'ultimo piano del museo dove sono presenti circa un centinaio di modelli di moto e di biciclette che raccontano la storia delle due ruote. Partiamo dagli albori con la Draisina creata dal Barone Karl Von Drais, un pezzo unico in legno totalmente privo di pedali (1816). Con l’invenzione dei pedali - grazie all'ispirazione del carrozziere parigino Michaux - nel 1861 nacquero i primi veri velocipedi, come la Michaudine del 1865, con telaio in ferro e ruote di legno ricoperte di ferro presenti in mostra. Tantissime le Bianchi, da quella con la livrea verde dei Bersaglieri (anni '30-'40), alle vittoriose di Giri d'Italia e Tour de France tutte costruite con grande cura e con componenti di qualità, caratteristiche che hanno sempre decretato il grande successo commerciale della casa milanese. Originalissima la bicicletta destinata ai vigili del fuoco del 1910, che operavano all'interno delle industrie petrolchimiche. La dotazione di questa bicicletta comprendeva oltre alla manichetta per l'acqua arrotolata nel telaio, un becco a lancia, un piede di porco, una piccola ascia, la sirena, il casco ed un fanale a carburo. Dai gloriosi pedali alla raffigurazione del centauro, icona di libertà e potenza. Tra le moto ammiriamo la Bianchi Tonale 175cc (1956) qui rivestita con una speciale carenatura realizzata in collaborazione con l’ingegner Nardi, progettista di aerei. Presente anche la Skootamota del 1919, mezzo innovativo definito anche “la non moto”, dal peso di 35 chilogrammi indicato come il precursore del moderno scooter. E poi l'inglese Ariel "Square Four" con sidecar (1932), fra le case motociclistiche più innovative dell'epoca, le Ducati con una delle sue prime rappresentazioni, il Cucciolo, di fatto un motore a quattro tempi montato su una bicicletta. Due splendide Galloni, marchio piemontese fondato a Borgomanero negli anni ’20 del Novecento oggi rarissime, e poi l'eccellenza tecnica delle Gilera, le moto Guzzi dei vari Astore, Falcone, Cardellino tutte in bella mostra. E il blocco degli scooter a marchio Piaggio. A rendere la sua Vespa uno status symbol ha senz’altro contribuito il film Vacanze Romane del 1953 in cui Audrey Hepburn e Gregory Peck affrontano il traffico di Roma in sella a una Vespa 125. E non c’è ciclomotore più iconico del Piaggio "Ciao", prodotto per quasi 40 anni in innumerevoli esemplari. Ed arrivare infine ad epoche più recenti, dominate dalle giapponesi, con la Yamaha YZF 500 del 1996 in testa.
lunedì 14 ottobre 2024
La Rocca d'Olgisio: la perla che domina tutta la Val Tidone - domenica 13 ottobre
L'imponente affioramento roccioso della Rocca d'Olgisio (mt 564), spartiacque tra la val Tidone e la val Chiarone, è uno dei complessi fortificati più antichi del piacentino in una zona appenninica caratterizzata da cime di quote modeste ma che regalano suggestivi panorami sulla pianura padana e le vallate circostanti ricche di vigneti. Fa parte dei Castelli del Ducato di Parma, Piacenza e Pontremoli. La rocca presenta una struttura caratterizzata da una pianta di forma irregolare a cui si accede tramite l'ingresso più....sul lato nord dell'edificio. Il versante meno aspro, quello meridionale, caratterizzato dalla presenza di un declivio meno ripido e per questo più vulnerabile all'attacco nemico, venne munito di cinque ordini di spesse mura all'interno delle quali si addossano numerosi corpi di fabbricato ed un dispositivo di cortine che costituiscono gli ordinamenti difensivi della rocca. L'entrata del terzo ordine murario è sormontato da un arco bugnato sulla cui sommità è decorato un dipinto, ormai stinto, di un Santo. L'ingresso, che riporta scritto sullo stipite interno il motto latino Arx impavida era originariamente dotato di ponte levatoio, di cui restano solo gli incastri, e di un'inferriata a saracinesca, andata perduta. Nel cortile si trova un pozzo, profondo una cinquantina di metri su cui insistono leggende di passaggi segreti e vie di fuga dal castello.
Dal lato opposto del cortile sono presenti l'oratorio dedicato a Santa Faustina e Santa Liberata e il bel mastio con saloni affrescati, caratterizzato da una pianta di forma rettangolare su cui si innesta la torre della campana, originariamente più alta. Diversi elementi decorativi, come la balaustra sorretta da tredici mascheroni, alcuni affreschi e lo scalone risalgono agli ultimi anni del Cinquecento per volontà del cardinale Jacopo Dal Verme III. Nella parte esterna della Rocca si apre un giardino rigoglioso che ospita fiori e piante rarissime, come alcuni fichi d’india nani, diverse specie di orchidee selvatiche e una insolita varietà di amarillidi gialla originari del Sudafrica. Si tratta di specie difficili da trovare in Europa, specialmente nelle regioni del nord, ma che riescono a crescere e a sopravvivere grazie al particolare microclima della Val Tidone. Poco oltre la cinta muraria più esterna, sono presenti alcune grotte naturali all'interno delle quali sono stati trovate tracce di insediamenti preistorici. Secondo la leggenda, nel 550 il signore del castello era un certo Giovannato, padre delle sante Liberata e Faustina ma le prime notizie documentate della Rocca risalgono al 1037 quando il fortilizio viene ceduto da Giovanni, canonico nella cattedrale di Piacenza, ai monaci di San Savino che lo custodiscono fino al 1296.Per un centinaio d'anni, periodo storicamente turbolento, si succedono vari proprietari tra cui la signoria pontificia, sino a giungere nel 1378 quando Galeazzo Visconti assegna la Rocca in feudo nobile e perpetuo a Jacopo Dal Verme, celebre capitano di ventura di nobile famiglia veronese che con alterne vicende ne mantiene il possesso sino alla metà dell'Ottocento quando la famiglia si estingue, per successione ereditaria, passando ai conti Zileri di Parma. Da questo momento la rocca subisce un degrado inarrestabile e una vera e propria spogliazione di oggetti e arredamenti antichi. Dopo vari passaggi di mano, nel 1979 la proprietà passa alla famiglia Bengalli che con notevoli sforzi, una grande passione e un attento restauro hanno reso visitabile al pubblico il bellissimo maniero.
Dal lato opposto del cortile sono presenti l'oratorio dedicato a Santa Faustina e Santa Liberata e il bel mastio con saloni affrescati, caratterizzato da una pianta di forma rettangolare su cui si innesta la torre della campana, originariamente più alta. Diversi elementi decorativi, come la balaustra sorretta da tredici mascheroni, alcuni affreschi e lo scalone risalgono agli ultimi anni del Cinquecento per volontà del cardinale Jacopo Dal Verme III. Nella parte esterna della Rocca si apre un giardino rigoglioso che ospita fiori e piante rarissime, come alcuni fichi d’india nani, diverse specie di orchidee selvatiche e una insolita varietà di amarillidi gialla originari del Sudafrica. Si tratta di specie difficili da trovare in Europa, specialmente nelle regioni del nord, ma che riescono a crescere e a sopravvivere grazie al particolare microclima della Val Tidone. Poco oltre la cinta muraria più esterna, sono presenti alcune grotte naturali all'interno delle quali sono stati trovate tracce di insediamenti preistorici. Secondo la leggenda, nel 550 il signore del castello era un certo Giovannato, padre delle sante Liberata e Faustina ma le prime notizie documentate della Rocca risalgono al 1037 quando il fortilizio viene ceduto da Giovanni, canonico nella cattedrale di Piacenza, ai monaci di San Savino che lo custodiscono fino al 1296.Per un centinaio d'anni, periodo storicamente turbolento, si succedono vari proprietari tra cui la signoria pontificia, sino a giungere nel 1378 quando Galeazzo Visconti assegna la Rocca in feudo nobile e perpetuo a Jacopo Dal Verme, celebre capitano di ventura di nobile famiglia veronese che con alterne vicende ne mantiene il possesso sino alla metà dell'Ottocento quando la famiglia si estingue, per successione ereditaria, passando ai conti Zileri di Parma. Da questo momento la rocca subisce un degrado inarrestabile e una vera e propria spogliazione di oggetti e arredamenti antichi. Dopo vari passaggi di mano, nel 1979 la proprietà passa alla famiglia Bengalli che con notevoli sforzi, una grande passione e un attento restauro hanno reso visitabile al pubblico il bellissimo maniero.
lunedì 7 ottobre 2024
Dal Corno d'Aquilio il panorama è infinito - domenica 6 ottobre
La cima del Corno d'Aquilio (mt 1547) è un pilastro nord orientale dei Monti Lessini che si affaccia alto e solenne sulla Val d'Adige, tra Verona e Trento. Per salire alla cima del Corno d'Aquilio si può partire da contrada Tommasi di Fosse di Sant'Anna d'Alfaedo, come pure dal passo di Fittanze della Sega. Noi preferiamo optare per la prima soluzione. Il sentiero 240, che corrisponde in larga parte al sentiero europeo E7, si stacca da una comoda strada di avvicinamento asfaltata, poco distante dal parcheggio più alto in Contrada Tommasi. Iniziato il sentiero, ci si inerpica lungo una salita immersa nel bosco che come per incanto è passato in pochi giorni dal verde brillante al giallo senape, all’arancio, al rosso e al marrone. I passi si fanno silenziosi, la prospettiva infinita. Dal bosco si raggiunge una selletta tralasciando le stradine per il passo Fittanze, e si proseguire in leggera salita, ad aggirare malga Pretta di Sopra (m.1527) poco sotto la gobba del Cornetto (mt 1543) con relativo brutto edificio in cemento armato del ripetitore, dalla quale si apre lo straordinariamente bello piccolo e dolcissimo altopiano di malga Fanta, dove si trova la celebre Spluga della Preta, una delle grotte più profonde al mondo con i suoi 877 metri esplorati sotto la cima del Corno d’Aquilio. Poco lontano dalla dolina della Spluga della Preta - completamente recintata - si trova la chiesetta degli speleologi e a qualche centinaio di metri la Grotta del Ciabattino, facilmente visitabile da tutti. Tutto attorno un bucolico paesaggio popolato esclusivamente da mucche al pascolo. Oltrepassato il recinto ora si mira alla croce della cima che si raggiunge con salitella tra prati e balze erbose. La cima è davvero stupefacente. All'improvviso, ai piedi della grande croce di ferro, si spalanca lo strapiombo sulla val d'Adige e sulle contrade di Sant'Anna d'Alfaedo. Intorno lo sguardo spazia su tutta la Lessinia, le Piccole Dolomiti, i contrafforti della Valle dell'Adige, il Baldo ed anche il lago di Garda...peccato per il grande ammasso nuvoloso che copre la vetta e che fa solo percepire la straordinaria bellezza paesaggistica. Dopo la meritata sosta e scattate le foto di rito si riprende la discesa raggiungendo malga Preta di Sotto (mt 1482) dove andiamo a gustare i deliziosi "gnocchi sbatui" tipici della Lessinia, i corposi antipasti e la rustica polenta. Assaggiare la loro grappa e un vino sincero è quasi d'obbligo. E' tempo di ritornare. Affiancata la ghiacciaia della malga si scende nuovamente lungo il sentiero 240 nel bosco della val Liana che sbocca nella strada sterrata non lontano da contrada Tommasi.
PARTENZA: Contrada Tommasi
(mt 1130)
SEGNAVIA: Cai 240
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 415
ALTITUDINE: mt 1545
LUNGHEZZA: km 7,5
DIFFICOLTA': E
DISLIVELLO: mt 415
ALTITUDINE: mt 1545
LUNGHEZZA: km 7,5
domenica 6 ottobre 2024
Festival del Cammino: incontro emozionante con Nives Meroi - sabato 5 ottobre
Lei scalza senza bombola d'ossigeno e senza aiuto di portatori d'alta quota. Gioca pulito col mondo Nives Meroi la tigre sopra i grattacieli di madre natura. Sono le parole dello scrittore Erri De Luca estratte dal bellissimo libro "Sulla traccia di Nives". Solo il meteo inclemente nega la possibilità della camminata sotto le stelle alla Santissima di Gussago al cospetto della grande alpinista Nives Meroi. Tutto è rimandato ad un incontro nella meno spettacolare Sala Polifunzionale del centro franciacortino - moderato dal giornalista Andrea Mattei della Gazzetta dello Sport - dove a raccontarsi c'è Nives Meroi, la prima italiana ad aver scalato tutti i 14 ottomila del mondo insieme a suo marito Romano Benet, che l'ascolta seduto in prima fila. E' una Nives semplice e disincantata che dà quasi l'impressione di non prendersi sul serio nonostante il prestigioso curriculum sportivo. Un cammino iniziato dalle Alpi Giulie per arrivare sulle cime più alte della Terra, senza l’ausilio dell’ossigeno, di portatori d'alta quota o di altri aiuti. Un cammino fatto di piccoli passi, passione, umiltà, pazienza. Ma anche di libertà e responsabilità, di curiosità e attenzione per i particolari perché in montagna le distanze non si calcolano in chilometri ma in giorni di percorso. Bergamasca di Bonate di Sotto, classe 1961, Nives si racconta partendo dall'ultimo ottomila, l'Annapurna - conquistato l'11 maggio 2017 - attraverso le immagini proiettate sullo schermo, senza musica se non la sua voce narrante mai monotona.
"Alle 10:30 (ora locale) Nives Meroi e Romano Benet hanno raggiunto la cima dell’Annapurna a 8091 metri riuscendo così a completare il “grande tour” dei 14 Ottomila della Terra. Cinque settimane di duro lavoro per i due che hanno fatto squadra con gli spagnoli Alberto Zerain e Jonatan Garcia. Dieci ore di salita per l’attacco alla vetta con meteo instabile per oltre 1.100 metri di dislivello. La vetta dell’Annapurna alle 6,30 di questa mattina. Ora stanno scendendo verso campo 4".
Nives conosce bene la difficoltà della salita, del gelo e della solitudine. Ma è bella anche l’attesa della fatica, che significa strada fatta, metri conquistati e la vetta più vicina. La vetta però non la si deve guardare se non di nascosto, altrimenti il cammino sembra più faticoso, il respiro si fa più affannoso e il passo più breve. Nives e Romano sono un unicum nell’alpinismo. Hanno iniziato insieme nel 1994 su una delle montagne più temute e simboliche, il K2, che però quell'anno non li ha lasciati salire, anche perché loro l'avevano tentato da nord per una nuova via. Il primo ottomila arriva nel 1998 con il Nanga Parbat, mentre è del 2003 la scalata di tre Ottomila in soli venti giorni (Gasherbrum II, Gasherbrum I, Broad Peak), seconda cordata al mondo a realizzare quest’impresa e Nives, prima donna in assoluto. Oppure il loro “K in 2” del 2006 attraverso lo Sperone degli Abruzzi, salito e disceso in cinque giorni in completa solitudine. E ancora l’Everest nel 2007. L'anno successivo, in stagione invernale, tentano il Makalu senza raggiungere la vetta, mentre nella discesa Nives si frattura una gamba. E poi il Lhotse (2004), il Kangchenjunga (2009), fino alla cima del Makalu (2016) e l'ultima incredibile impresa dell’Annapurna.Si racconta con emozione Nives quando rinuncia nel 2009 al tentativo di scalata del Kangchenjunga per l'improvviso peggioramento delle condizioni fisiche di Benet quando si trovano in arrampicata sopra i settemila metri. Non ci pensa un solo momento a rinunciare anche alla competizione per la prima scalata femminile degli ottomila himalayani. Tornati in Italia, Romano Benet scopre d'essere affetto da un'aplasia midollare severa. La grave malattia li tengono lontani fino al 2012, nuovamente respinti dal Kangchenjunga che si arrenderà finalmente nel 2014.
Il racconto è terminato. Nives Meroi si lascia avvolgere dal nostro abbraccio. In disparte Romano ascolta. Nelle sue parole scorre la narrazione di un alpinismo attento a rispettare la natura, i paesi e le genti di cui sono ospiti. "Il buono dei viaggi in Himalaya è che si fanno ancora a piedi. Si cammina per avvicinarsi alle montagne e le distanze ritornano vere. La lentezza permette di entrare nel paesaggio, di registrare i sensi su di esso. Mi fermo spesso per annusare, bere, salutare le persone che incontro. I saluti aprono le porte"
Erri De Luca " Sulla traccia di Nives" (Feltrinelli - 2005)
Il racconto è terminato. Nives Meroi si lascia avvolgere dal nostro abbraccio. In disparte Romano ascolta. Nelle sue parole scorre la narrazione di un alpinismo attento a rispettare la natura, i paesi e le genti di cui sono ospiti. "Il buono dei viaggi in Himalaya è che si fanno ancora a piedi. Si cammina per avvicinarsi alle montagne e le distanze ritornano vere. La lentezza permette di entrare nel paesaggio, di registrare i sensi su di esso. Mi fermo spesso per annusare, bere, salutare le persone che incontro. I saluti aprono le porte"
Erri De Luca " Sulla traccia di Nives" (Feltrinelli - 2005)
Iscriviti a:
Post (Atom)